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Prodotti tipici

 

I Bìgoli

 

  • Sono parte dell’identità gastronomica veneta e tra i formati di pasta propri di questo territorio sono, indubbiamente, i più conosciuti;

  • nella forma ricordano un grosso spaghetto sebbene siano molto più spessi;

  • sull’origine del nome esistono due ipotesi: secondo la prima, nonché la più accreditata, la parola deriverebbe dal termine dialettale “bigàt”, “bruco”; la seconda ipotesi, invece, sostiene che la parola derivi dal latino “bombyx”, “baco” → entrambe le ipotesi riprendono la forma allungata del bigolo;

  • la letteratura spesso si riferisce a questo formato di pasta definendolo “veneto” non “veronese” sebbene i fatti storici definiscano in maniera chiara la maternità veronese dei bìgoli;

  • la presenza dei bìgoli sulle tavole dei veronesi è documentata a partire dal 1636: in quell’anno venne istituita l’Arte dei biavaroli → gli statuti dell’Arte dei biavaroli stabilivano l’esclusiva dell’Arte, oltre che sulla vendita di farine, granaglie e legumi, anche sul confezionamento della pasta, realizzata in diverse forme “bìgoli, paparelle, lasagne, macaroni di Puglia et ogni altra sorte di simili paste”;




  • i bìgoli, inoltre, sono citati nelle liste della spesa sia delle famiglie veronesi che delle comunità religiose →  alcune note di questi registri evidenziano le occasioni di consumo dei bìgoli: alla mensa delle monache i bìgoli potevano sostituire a carnevale i tradizionali gnocchi (detti maccheroni), si parla dei “bìgoi del venerdì casolaro” →  oltre alla specifica riguardante l’occasione di consumo, si parla anche del condimento: burro e formaggio →  ai giorni di magro, invece, era riservato il condimento con le “sardèle”, ovvero sardine sotto sale;

  • i bìgoli e gli gnocchi definiscono in maniera precisa la tradizione veronese del tempo, sebbene ci siano dei dubbi su quale tipo di pasta sia stato creato prima;

  • la prima esplicita identificazione della “veronesità” dei bìgoli si trova in un sonetto in lode della città di Mantova di Giammaria Galeotti (1699-1744), edito nel 1782: “Par fin ha un frutto che/Come famosa fa Verona i bigoli/Singolar ci fa il lago, e son i trigoli”;

  • il legame identitario tra questo formato di pasta e la sua terra madre pare si consolidi a metà del XVIII secolo: Giuseppe Pichi, nel “Traduzion dal toscano in lingua veneziana de Bertoldo Bertoldin e Cacesenno” (stampata a Padova nel 1747), parla dei bìgoli come elemento distintivo e qualificante di Verona nella sintetica descrizione della città:

 

Verona è una belissima citàe,

Che coline, e pianure la circonda,

A chi la vede la ghè piase assae,

Con l’Adese, che va sempre e segonda;

Ghè l’Arena con altre antighitàe,

E par, che a un’altra Roma corisponda,

Ghè ben clima, e cortesi abitadori

Dei bigoli famosi destrutori

 

  • la ricetta tradizionale prevedeva unicamente tre ingredienti per la loro realizzazione: acqua, grano tenero e sale → con il tempo, però, la ricetta si è arricchita includendo anche le uova;

  • per quanto riguarda la tipica forma dei bigoli, bisogna distinguere due momenti storici: prima del torchio e post → a Verona, prima del torchio, si utilizzava il cosiddetto ferro da maccheroni ovvero un cilindro metallico simile a un piccolo mattarello, intagliato con scanalature che fungevano da “coltelli” paralleli → i bigoli, dunque, al tempo avevano una forma più squadrata rispetto a quella dei bigoli al torchio;

  • successivamente si è passati all’utilizzo del bigolaro, un torchio con trafila in bronzo inventato da Bartolomio Veronese: maestro pastaio di Padova noto come “Abbondanza” che nel 1604 ottenne il brevetto dal Consiglio Comunale;

  • nei più noti ricettari della tradizione il condimento, per eccellenza, dei bìgoli è la salsa di acciughe: questo piatto veniva consumato nei giorni di magro, come la Vigilia di Natale, il Venerdì Santo e il Mercoledì delle Ceneri → secondo la tradizione (vicentina) i bìgoli possono essere conditi con il ragù di anatra.


 

 

 

Gli gnocchi

 

  • La storia degli gnocchi è legata, indissolubilmente, a quella del carnevale scaligero;

  • il Venerdì Gnoccolare è una tipica festività del popolo veronese che alcuni riconduco addirittura ai tempi di Ezzelino da Romano → altri ritengono, invece, che “il Gnocco” risalga all’epoca della dedizione di Verona a Venezia;

  • nel 1405, tornati gli ambasciatori veronesi da Venezia, tolsero dalla chiesa di S. Zeno l’antico carroccio di guerra: montarono su di esso tenendo in mano lo stendardo del veneto Leone e mossero verso Piazza delle Erbe;

  • si narra che quell’anno un’orribile carestia imperversasse e che per questo gettarono dal carroccio pane al popolo, che lo acclamava “il carro dell’abbondanza”;

  • nel 1531 Tommaso da Vico, benemerito cittadino, si adoperò perché il baccanale si convertisse in una pubblica beneficenza → in quell’anno, a causa di una grave carestia, il prezzo della farina crebbe così tanto che la povera gente, in particolare nel popolare quartiere di San Zeno, rischiava di morire di fame → Vico conobbe la popolazione più bisognosa di S. Zeno e riuscì a raccogliere una somma tale da garantire ai diseredati la farina necessaria per gli gnocchi, un piatto -al tempo- alla base dell’alimentazione popolana →  la farina veniva quindi “convertita”, e da questa usanza prese il nome il venerdì di carnevale, ovvero “Venerdì gnocolar” → nel suo testamento il Da Vico lasciò un’ingente somma affinchè, ogni anno, il Venerdì grasso, fossero distribuiti gnocchi e vino in quantità agli abitanti →  in ricordo di questo episodio è nata la maschera più nota del carnevale veronese: il Papà de Gnoco, un panciuto e barbuto re che, al posto dello scettro, tiene un’immensa forchetta sormontata da un grosso gnocco.

 

 


Leggenda


Si narra che un popolano di San Zeno, detto Papà del Gnoco, a cavallo di un asinello, seguito dagli straccioni della città, si diresse verso il Palazzo della Prefettura a nome dei “Sanzenati”: qui invitò le autorità cittadine e governative ad intervenire alla grande festa. Questo gesto fece mutar volto al corteo: non vi erano solamente poveretti, ma anche nobili schiere di signori e cavalieri.

Il lungo corteo si dispose intorno al gran padiglione, appositamente eretto in Piazza Pozza a San Zeno, dove Papà del Gnoco salì per primo, per fare gli onori. Furono serviti gnocchi fumanti agli ospiti illustri (e non solo) e fra questi vi erano anche i rappresentanti del governo.

 

Gli gnocchi hanno una tradizione antichissima → originariamente la ricetta era “povera”, prevedeva solo due ingredienti: farina e acqua → L’aggiunta delle patate è avvenuta successivamente: tra il 1774 e il 1856 il tipico prodotto veronese aveva già subito la “rivoluzione della patata” → l’affermarsi del capitalismo industriale favorì la sostituzione della farina con la patata, ritenuta un valido ed economico sostituto → mutato nella sostanza “lo gnocco era diventato per il popolo una sorta di residuo paretiano, cioè un sentimento, l’intuizione di una forma modellata dalla grattugia”.


 

 

La Pastissada de caval

 

  • è un piatto tipico della tradizione gastronomica veronese e convenzionalmente si fa risalire la sua nascita al 30 settembre del 489 d.C.: risale a quella data una sanguinosa battaglia, combattuta nei pressi della città, tra Teodorico e Odoacre;

  • la battaglia fu vinta da Teodorico e l’episodio è ancora oggi visibile: è scolpito sulla facciata della Chiesa di San Zeno.

Leggenda

Si narra che in occasione della battaglia combattuta tra Teodorico e Odoacre sia nato uno dei piatti più noti della tradizione gastronomica veronese: la Pastissada de caval, ossia lo stracotto di carne di cavallo. 

 

La battaglia si tenne alle porte di Verona nel 489. In seguito ai cruenti combattimenti rimasero sul campo centinaia di cavalli, vittime dello scontro. Si racconta che la popolazione, affamata, chiese al vincitore -Teodorico- il permesso di cibarsene. Il nuovo sovrano diede il permesso alla popolazione di utilizzare la carne dei cavalli e di prendere i barilotti di vino Bardolino.

Data la grande abbondanza e la mancanza di strumenti per la conservazione della carne, si cercò di prolungare la durata immergendola in un mix di vino e spezie. La successiva cottura della carne diede vita al celebre piatto veronese.

  • La “Pastissada” consiste in uno stracotto di carne di cavallo: la carne equina viene cotta in abbondante vino e spezie per 36/48 ore;

  • è sempre esistita, però, una tradizionale avversione - anche popolare- dei veronesi nei confronti della carne di cavallo: veniva consumata unicamente nei periodi di carestia;

  • risalgono agli ultimi decenni del governo austriaco i tentativi per favorire l’utilizzo alimentare di carni equine: si liberalizzò la vendita della carne e furono creati degli appositi macelli;

  • per superare questa ostilità nei confronti della carne equina si dovette ricorrere a preparazioni che nascondessero il più possibile l’origine di questa carne attraverso lunghe cotture e la riduzione in minuti pezzi, se non sfilacci.




Tastasal

 

  • La parola “tastasal” appartiene al dialetto veneto e significa, letteralmente, “testare il sale”;

  • il significato di questa parola è da associare, necessariamente, all’ambito gastronomico e - nello specifico- al mondo della carne → si “testa il sale” all’interno della carne;

  • nei secoli scorsi, infatti, le massaie della bassa veronese avevano l’abitudine di preparare il “Risotto col Tastasal” per controllare la sapidità all’interno della pasta dei salumi, prima di insaccarli;

  • la parola “Tastasal”, dunque, deriva dall’operazione di controllo della salatura della carne di maiale utile per ricavarne, successivamente, soppressata, salame e stortina veronese;

  • alla carne si aggiungevano, poi,  alcuni aromi, come il rosmarino, il pepe e la cannella;

  • il tastasal consiste in un impasto di pancetta e spalla suina macinati finemente e aromatizzati: si sgrana al tatto e ha un colore rosso vivo; il suo sapore intenso è esaltato da un gradevole profumo di chiodi di garofano, cannella, aglio e rosmarino. 



Polenta

 

  • Il mais arrivò in Europa, precisamente in Spagna, forse con il primo viaggio di ritorno dalle Americhe; di sicuro fece parte del carico del secondo viaggio di ritorno nel 1494;

  • la diffusione nel Vecchio Continente fu piuttosto lenta e per un lungo periodo il mais fu solamente una curiosità botanica che non riscuoteva un grande interesse agricolo;

  • il nome mais deriva dalla parola “mahiz” con la quale gli indigeni incontrati da Cristoforo Colombo chiamavano questa pianta → il nome granoturco, invece, ha origine nel ‘500: al tempo la parola “turco” aveva il significato di “straniero”;

  • la fortuna del mais nel Vecchio Continente, però, è legata alla Repubblica di Venezia e al suo declino come potenza marittima e commerciale → la Serenissima, allora, si interessò maggiormente alla terraferma, espandendosi nelle province limitrofe: è in questo clima che si iniziò a pensare al mais come una nuova coltura;

  •  la prima segnalazione sulla sua coltivazione risale al 1554 ed è relativa a colture nel Polesine e nel basso Veronese;

  • la Polenta ha origini antichissime, già ai tempi dei Romani si scriveva di questo prodotto→ il termine “polenta” deriva dal latino “puls”, e al tempo non indicava un cibo a base di mais, ma di farro;

  • il mais venne macinato e mescolato con acqua e sale per la prima volta - in Italia- nel 1554, nei territori del Polesine; si ottenne, così, una pastella morbida;

  • nei territori in cui il mais si diffuse maggiormente, anche la polenta divenne particolarmente diffusa; ciò avvenne in maniera significativa in Veneto, Lombardia e Trentino→ in queste Regioni, e in primis in Veneto, la Polenta divenne la regina della tavola;

  • la storia gastronomica del Veneto è legata fortemente alla polenta, piatto fondamentale della tradizione di questa regione → quest’ultima è la patria del mais marano: per tale ragione, quando si parla di polenta, si intende quella gialla;

  • fino al secondo dopoguerra, nel Trevigiano, Veneziano e nel Polesine si mangiava soprattutto la polenta bianca → questo tipo di polenta, ritenuto di maggior pregio, divideva la pianura e la collina dalla montagna: in montagna, infatti, consumavano prevalentemente la polenta gialla, più rustica, perché ritenuta più adatta alle condizioni agronomiche e pedologiche;

  • il mais utilizzato per la più ricercata e delicata polenta bianca è il Biancoperla;

  • la massiccia diffusione di questo mais risale alla seconda metà dell’Ottocento, grazie anche alla sua maggiore conservabilità;

  • la polenta bianca, più delicata e saporita rispetto a quella gialla, è anche detta “di Treviso” e nelle campagne si consumava con il latte freddo, ottenendo in questo modo una sorta di semolino detto “patugoi”/“pastarei” (in collina e nell’area pedemontana) e “tacoi” (in pianura);

  • la tradizione vuole che questa polenta venga abbinata con piatti di pesce povero di fiume e di laguna: marson, schie, moeche, masenete, gamberi e baccalà → nelle aree collinari, invece, sono parte integrante dell’identità culturale due piatti: polenta e speo e polenta e osei.


Monte Veronese



Il formaggio Monte Veronese è presente sul territorio veronese fin dall’anno Mille → così come lo conosciamo noi, però, risale a due secoli dopo quando i Cimbri (un gruppo di coloni di origine tedesca proveniente dall’Altopiano di Asiago) si insediarono in Lessinia →  i Cimbri portarono in questo territorio la loro manualità e le tecniche di lavorazione del latte e del caglio e ottennero questo formaggio che ha avuto, nel corso dei secoli, un’enorme diffusione;

  • il nome di questo formaggio ha subito numerose modifiche nel corso del tempo e deriva dalla tecnica di produzione che prevede l’utilizzo di latte ottenuto da due mungiture;

  • l’espressione dialettale con la quale lo definivano gli allevatori era, infatti, “il latte delle do monte” → l’evoluzione di questa espressione ha dato vita al nome “Monte” accompagnato dall’aggettivo “Veronese” che indica la zona di produzione;

  • il Monte Veronese è un formaggio tipico della regione del Veneto ed è insignito della certificazione DOP;

  • il latte proviene dalla parte settentrionale della provincia di Verona: qui avvengono anche le fasi relative alla trasformazione e alla stagionatura → si tratta di un’area prevalentemente montana: in questa zona oltre ai fertili pascoli, il territorio vanta un’antica tradizione nell’allevamento del bestiame, nell’alpeggio e nella produzione di latte e formaggi → questo territorio coincide, (a grandi linee) con la Lessinia, il Monte Baldo e la fascia collinare prealpina veronese: la produzione di formaggio ha forgiato ‘identità di questo territorio fin da prima dell’anno Mille →  all’epoca costituiva una preziosa merce di scambio (sostitutiva la moneta);

  • questo formaggio è prodotto in due tipologie: Monte Veronese latte intero e Monte Veronese d’allevo;

  • il Monte Veronese latte intero è prodotto con latte intero proveniente da una o due mungiture consecutive; il suo gusto, delicato e gradevole, ricorda il latte appena munto, la panne e il burro fresco;

  • il Monte Veronese d’allevo, invece, è prodotto con latte parzialmente scremato, proveniente da una o due mungiture consecutive → rispetto al primo, ha un sapore più deciso e saporito tipico del formaggio stagionato. Il gusto ricorda quello del burro maturo e delle nocciole, con la stagionatura tende a diventare un po’ piccante. 



Tartufo della Lessinia

 

  • Il tartufo era presente nelle diete degli antichi, fin dai tempi del popolo sumero;

  • i tartufi sono stati apprezzati dai buongustai, in ogni epoca, a partire dagli antichi Greci; i Romani furono ghiotti di tartufi ed Apicio e Giovenale ne cantarono gli elogi e ne adattarono metodi per cucinarli;

  • il prestigio di questo fungo è cresciuto esponenzialmente in tempi moderni → pare che Napoleone, nella sua campagna militare a Verona, prima della battaglia d’Arcole, si sia interessato ai tartufi della Lessinia;

  • Sormani Moretti, Regio Prefetto, nella sua “Monografia della provincia di Verona” parla dei tartufi del Veronese;

  • il “Tartufo nero di Verona”, Tuber melanosprium, proviene da tartufaie naturali, ha tubercolo a superficie nera, tondeggiante con irregolarità di forma verrucosa ed emana un forte odore;

  • i territori interessati alla produzione sono: Comunità del Baldo e della Lessinia (provincia di Verona).





La Pearà


La Pearà è una salsa a base di midollo, pane grattugiato, pepe e brodo – talvolta anche con del formaggio grattugiato – fatta cuocere a lungo in una pentola di coccio e utilizzata per accompagnare carni lessate. Secondo la leggenda veronese sarebbe stata inventata dal cuoco della corte di Alboino perché Rosmunda ritrovasse l’appetito. Il nome pearà deriva da Piperata, a base di pepe, e si legge per la prima volta in una pergamena del 1141.

L’uso specifico nel Veronese della piperata intesa come salsa per accompagnare il lesso è chiara fin dal Quattrocento: ad esempio nel 1449 il Convivium di Fumane prevedeva per gli associati un pranzo annuale con paparèle in brodo e carne lessa accompagnata appunto con una piperata.

Molto più recente è la specificità veronese della pearà, dove il pane è addolcito dal midollo. Questo passaggio è avvenuto tra XVII e XVIII secolo, per l’influenza del modello culinario francese.